Nel
1973, allorché avevo soltanto tre anni, fui depositato, di
sera, da mio padre, all'idroscalo di Ostia in un luogo posto a fianco
di un campo di calcio. Era uno spazio pieno di baracche, cani
latranti, discariche di rifiuti e materassi marci di seta broccata,
strappata e sbiadita, a forma di volti di papi, giacigli, questi, del
Vaticano.
Tranquillamente,
seduto su uno di questi materassi, rimasi in attesa del poeta
Pasolini che arrivò alla guida della sua Alfa in compagnia di
un compagno omosessuale. Il ragazzo, Pino Pelosi, detto la Rana,
appena giunti lì incominciarono a prendermi in giro
soprattutto per la forma del mio naso per il quale mi
soprannominarono “Il patata” e poi il “Romano di Parma”.
Chiamavo
il poeta con il suo cognome Pasolini perché per me significava
felicità. A quell'ora molti degli amici del poeta, abitanti
nelle baraccopoli, scaricavano dei pitali di urina nella riva del
mare a pochi metri. Pasolini mi portò in una trattoria gestita
da una trattore chiamato Abortoli e mi invitò a mangiare carne
di pecora e del formaggio pecorino al miele.
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