Antonio Tacete nato a Parma il 18.03.1970 si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali con tesi sul pittore pittore settecentesco Giovanni Paolo Panini. Si considera l'incarnazione del poeta francese Robert Desnos e ha pubblicato i seguenti libri:
La casa di Standhal
Il pozzo medievale
La città dei formaggiai e il bambolone nano
La bibbia dei topi
Il formichiere elettronico
L'invasione delle cavallette
La sigaretta all'incenso
Le lucciole nella lana delle pecore
Le lucciole nella lana delle pecore
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Antonio Serventi detto Tacete è un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro. Se si dovesse illustrare un suo dipinto saremmo di fronte ad un quadro di Bosch. Un elogio della follia letterario. Tacete, (più che uno pseudonimo, un imperativo verso tutti gli altri scrittori del mondo!) ci porta in un inferno più che padano, scavando nella psiche di un uomo che non ha barriere razionali. Tacete non è uno scrittore di questo tempo, viene dal cinquecento, per questo non sarà mai pubblicato dai grandi editori. Resterà per sempre un figlio del Folengo e di Bosch, reincarnazione presente del poeta Robert Desnos. E il suo nome imperativo, pesa tremendamente di fronte a tutti quei libri che escono oggi, scritti bene, ma senza sapore, senza sangue. Il mondo in rivolta di Tacete, con il suo protagonista Villa il nano, spegne ogni velleità letteraria altrui. La scrittura è monito, avvertimento, strada da seguire e fuggire, modello e fuga. Un autore di nicchia per appassionati da leggere con passione e ardimento.
Guido Conti
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Interviste a Antonio Tacete
Intervista a Antonio Tacete febbraio 2014
Daniela Stecconti legge Tacete aprile 2014 (Il teatro dei topi)
Daniela Stecconi legge Tacete aprile 2014 (L'invasione delle cavallette)
Intervista a Antonio Tacete gennaio 2014
Intervista a Antonio Tacete dicembre 2014
Intervista a Antonio Tacete 20 marzo 2015
Intervista a Antonio Tacete settembre 2015
Intervista a Antonio Tacete novembre 2015
Intervista a Antonio Tacete febbraio 2016
Intervista a Antonio Tacete marzo 2016
Presentazione libro "La sigaretta all'incenso
Intervista a Antonio Tacete aprile 2016
Antonio Tacete ospite di Bar Sport ottobre 2016
Intervista "Le lucciole nella lana delle pecore"
intervista a Antonio Tacete febbraio 2017
Intervista a Antonio Tacete marzo 2016
Presentazione libro "La sigaretta all'incenso
Intervista a Antonio Tacete aprile 2016
Antonio Tacete ospite di Bar Sport ottobre 2016
Intervista "Le lucciole nella lana delle pecore"
intervista a Antonio Tacete febbraio 2017
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Danilo Bianchi commenta Antonio Tacete...
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Villa il nano, sarà veramente un nano? Guardando il viso pacione di Antonio Tacete viene da farsi qualche domanda. Guardandolo nell'occhione tondo del calamaro gigante, pescato in Taro nella piana della Magrina nel 1957, verrebbero da porsi seri dubbi. Abbiamo saputo che Villa il nano, molti anni addietro, vendeva cipolle toscane che non fanno piangere. Le teneva in una cesta fatta di serpenti seccati e poi aggrovigliati come vimini bulgari, montata Pedoca, aveva una camminata strana che gli faceva fare un salto ogni tre passi, ma siccome che era alto come il marciapiedi di Via Mazzini non lo dava a vedere tanto. Villa il nano era cugino dei nonni di Pinen Merendino che stava sempre seduto sulle panchine del parco Ducale, anche quando pioveva, mangiando continuamente pezzi di sigaro toscano con le cipolle, che gli procurava il cugino.
Antonio Tacete conobbe Villa a Grotta di Iggio alla gara di Sandron che vinse una damigiana di vino americano analcolico, sfidando nella discesa di Pellegrino una motocicletta nera, che funzionava a piscia diluita con il carburo. Sandron vinse, bevvero la damigiana lui, Tacete, Villa il nano, che per l'occasione invitò la nipote del sindaco del quartiere Corea di Fidenza, che si chiamava Mastina. Si ubriacarono lo stesso e Tacete fece il giuramento di non scoreggiare più per la Vigilia di Pasqua.Poi divenne poeta filosofo,scrisse le preghiere per la canonica dei frati dell'ordine della giarattiera slabbrata, ma quei testi non piacquero ai frati, che preferirono leggere le cronache del giornale Stop.Io conobbi Tacete per caso sotto il ponte Taro a Fornovo mentre cercavamo margherite nere metalizzate a quattro petali, rarissime, che ci avrebbero pagate a peso d'oro. Fu in quell'occasione che mi parlò delle sue poesie moderne, mezze poesie e mezze preghiere celtiche, io non gli credetti e pretesi di leggerle per farmi un'idea. Capii che la prosa poetica era un artificio che Antonio usava, per vedere di notte,spesso alla stazione dei treni quello che sarebbe successo il giorno seguente. Fu facile rendersi conto che noi,che giriamo di notte, facciamo fatica a prevedere il futuro,ma soprattutto non riusciamo a capire un tubo di tutto quanto ci circonda ed è attraverso questa sua vista simbolica dissociata che Antonio Tacete sviscera mediante il sarcasmo esasperato oscuri e misteriosi legami che coinvolgono fatti e personaggi apparentemente comuni. Un racconto onirico ad occhi aperti.è la sua poetica, un sogno che ci parla con la modalità espressiva dell'inconscio collettivo. Le sue vicende recano marcatori metafisici, che si sono generati in tempi e spazi caratterizzati da parametri inconsueti, che trascendono l'armonia algebrica con la quale noi cerchiamo di decodificare la realtà. Antonio Tacete parla una lingua che utilizza i messaggi subliminali dell'inconscio, piuttosto che i fenomeni ai quali ci hanno predisposto. Un parlare privo di legami idiomatici soliti, ma neo-generati attraverso un processo di distillazione delle emozioni e dei simboli fondamentali depositati in ognuno di noi, un processo che trasforma la lingua conosciuta in una serie di segni icofonici da scoprire.Peravvicinarsi alla lettura di Antonio Tacete ci si deve depurare dei conformismi inutili, delle suggestioni predisposte dalla cultura comune d'immagine, sgravare dei pregiudizi sessuali e razziali, e dopo tale procedura può avvenire l'iniziazione del suo linguaggio criptico. Consiglio vivamente di leggere Tacete dopopranzo, quando l'influsso pacificante delle libagioni ci predispone ad una sperimentazione linguistica peraltro comicissima. La comicità più pura che io abbia mai sperimentato, rappresenta la sua grande forza espressiva e comunicativa. Con questo tuttavia rimarrà sempre il dubbio che Villa il nano non fosse stato in realtà un nano, ma semplicemente una dizione caratteristica nelle accezioni dialettali parmensi, con ciu si intende un giovanotto oppure una persona a noi vicina. Io nonostante tutto,preferisco pensare che Villa il nano abbia avuto una storia torbida con il figlio bambolo del mezzadro del podere Piroppi di Bogolese, quello che morì dopo la sfida delle uova e vino bianco con Palandrone di Morfasso che era venuto a Parma per vendere il brevetto della macchina per pescare il pescegatto.
Antonio Tacete conobbe Villa a Grotta di Iggio alla gara di Sandron che vinse una damigiana di vino americano analcolico, sfidando nella discesa di Pellegrino una motocicletta nera, che funzionava a piscia diluita con il carburo. Sandron vinse, bevvero la damigiana lui, Tacete, Villa il nano, che per l'occasione invitò la nipote del sindaco del quartiere Corea di Fidenza, che si chiamava Mastina. Si ubriacarono lo stesso e Tacete fece il giuramento di non scoreggiare più per la Vigilia di Pasqua.Poi divenne poeta filosofo,scrisse le preghiere per la canonica dei frati dell'ordine della giarattiera slabbrata, ma quei testi non piacquero ai frati, che preferirono leggere le cronache del giornale Stop.Io conobbi Tacete per caso sotto il ponte Taro a Fornovo mentre cercavamo margherite nere metalizzate a quattro petali, rarissime, che ci avrebbero pagate a peso d'oro. Fu in quell'occasione che mi parlò delle sue poesie moderne, mezze poesie e mezze preghiere celtiche, io non gli credetti e pretesi di leggerle per farmi un'idea. Capii che la prosa poetica era un artificio che Antonio usava, per vedere di notte,spesso alla stazione dei treni quello che sarebbe successo il giorno seguente. Fu facile rendersi conto che noi,che giriamo di notte, facciamo fatica a prevedere il futuro,ma soprattutto non riusciamo a capire un tubo di tutto quanto ci circonda ed è attraverso questa sua vista simbolica dissociata che Antonio Tacete sviscera mediante il sarcasmo esasperato oscuri e misteriosi legami che coinvolgono fatti e personaggi apparentemente comuni. Un racconto onirico ad occhi aperti.è la sua poetica, un sogno che ci parla con la modalità espressiva dell'inconscio collettivo. Le sue vicende recano marcatori metafisici, che si sono generati in tempi e spazi caratterizzati da parametri inconsueti, che trascendono l'armonia algebrica con la quale noi cerchiamo di decodificare la realtà. Antonio Tacete parla una lingua che utilizza i messaggi subliminali dell'inconscio, piuttosto che i fenomeni ai quali ci hanno predisposto. Un parlare privo di legami idiomatici soliti, ma neo-generati attraverso un processo di distillazione delle emozioni e dei simboli fondamentali depositati in ognuno di noi, un processo che trasforma la lingua conosciuta in una serie di segni icofonici da scoprire.Peravvicinarsi alla lettura di Antonio Tacete ci si deve depurare dei conformismi inutili, delle suggestioni predisposte dalla cultura comune d'immagine, sgravare dei pregiudizi sessuali e razziali, e dopo tale procedura può avvenire l'iniziazione del suo linguaggio criptico. Consiglio vivamente di leggere Tacete dopopranzo, quando l'influsso pacificante delle libagioni ci predispone ad una sperimentazione linguistica peraltro comicissima. La comicità più pura che io abbia mai sperimentato, rappresenta la sua grande forza espressiva e comunicativa. Con questo tuttavia rimarrà sempre il dubbio che Villa il nano non fosse stato in realtà un nano, ma semplicemente una dizione caratteristica nelle accezioni dialettali parmensi, con ciu si intende un giovanotto oppure una persona a noi vicina. Io nonostante tutto,preferisco pensare che Villa il nano abbia avuto una storia torbida con il figlio bambolo del mezzadro del podere Piroppi di Bogolese, quello che morì dopo la sfida delle uova e vino bianco con Palandrone di Morfasso che era venuto a Parma per vendere il brevetto della macchina per pescare il pescegatto.
ALESSANDRA GRANDI commenta il racconto“Le Lucciole nella Lana delle Pecore”
Alla quattordicesima pagina de: “Le Lucciole nella Lana delle Pecore”, non ho più
resistito all’idea di scrivere ciò che mi suggeriva Antonio Tacete. Una cosa
semplice come la
discussione al bar del Lino, fra milanisti e Juventini , riferita al celebre episodio della stagione 1998-1999 Milan Juventus 1-1 Quattro rigori
a favore del Milan, di cui tre negati. Ho provato a concentrarmi sulle
reminescenze della mia precedente vita trascorsa a cincischiare la pittura,
ma in quello strano mondo, gli artisti o presunti tali, più che nella letteratura trovano
sempre una casa in cui essere
ospitati. Nel frattempo ha
continuato a balenare nel mio cranio, la figura di un cavedanone gigante (detto Ginon
) che si sapeva scorrazzare nelle acque della piana del Taro alla Magrina di Bianconese. E’ certo che il terribile ciprinide, era
stato visto gingillarsi con le
cavedanesse del posto, indossando una collana di ami bronzati Tubertini del
quattordici , rubati di nascosto a
tre pescatori gay del circolo dopolavoro ferroviario di
Fidenza, i quali avevano sottoscritto
una raccolta di firme coi colleghi
pescatori del “Rapid,” per
perseguirlo penalmente.
L’ idea
malvagia si agitava nel
dubbio se Villa il Nano fosse
un nano di statura, oppure un mostro stabilmente residente nella mente
del suo autore. Il demonio mi
suggeriva, che nascondeva occulti significati. Provai
con l’alfabeto runico, ma trovai
solo un vago wyn – al man – o o nan- o
che non dicevano un bel niente, a quel
punto mi venne in mente un camionista che
frequentava il bar di mio papà quando io ero poco meno che ragazzino.
Era Mario,
e da li Marien fino a Jen, ma lui non
amava il diminutivo perché diceva fosse
simile a Gugnen. Non faceva un metro e
mezzo di persona , aveva un vocione rauco che
sembrava la grattata di una vecchia cinquecento dalla prima alla seconda marcia.
Prendeva per il culo tutti, raccontava dei suoi
viaggi sparando balle che
sembravano mine da marina, io lo ascoltavo, e
volevo credere fosse tutto vero. Da lui
avevo sentito di cameriere
cannone e cani imbastarditi con animali marini, anche di un serpente saltatore,
che volava di albero in albero.
Antonio è un
tipo che quando lo ascolti, senti
che vuole essere profondamente superficiale, ma è tutta apparenza, in
realta è profondamente profondo, nel
modo che spiegherò fra breve. Guarda
sempre in basso, come un cercatore di lumache giganti, arancioni come stradini
, scrivendo si esprime su argomenti filosofici, portando con sé
l’ antigene della moderna
spocchiosa cultura semplificata . Spacca in più parti il senso logico degli
eventi, ti sta raccontando qualcosa ma
contemporaneamente fa si che tu non
gli dia peso. Qualcuno sostiene che
sarebbe carente di senso
narrativo, lo dimostrerebbe il fatto che non usa ritmare il tempo di narrazione, avendo un’avversione
mefistofelica per la punteggiatura. Forse che
alle scuole elementari abbia avuto una maestra nana che picchiava i bambini con le lische di sardine giganti rosa choc,
dalle quali pendevano campanellini dorati di formaggio puzzone della
val Gardena? Non si sa, ma in un certo senso ciò risponde a verità, e
ciò sarebbe naturale se la sua prosa fosse
intelligibile dal senso comune
dei lettori nella modalità consentita dal sistema letterario.
le sue
vicende non seguono la ritualità del
raziocinio, la infrange
bellamente, fischiettando e scoreggiando
infischiandosi del concetto di spazio tempo al quale siamo tutti devoti.
Nel suo libro il tempo è un concetto secondario, trascurabilissimo, così
come lo spazio che si modifica per
ospitare meravigliosi mostri comici di
dimensioni incredibili. Quando lo
leggo, mi chiedo sempre come mai nessuno esalti la sua modernità
da salto quantico, proprio oggi che
la fisica quantistica viene messa pure nella Nutella al posto del
pericolosissimo zucchero. Eppure se vogliamo lo sguardo a tutto ciò che ci circonda,
nulla ormai risente delle tradizioni, tutto deve per forza essere innovativo, sperimentale, ma soprattutto
alternativo. Le storie di Tacete sono
altamente alternative, vicine ai canti
rituali, sono drammi minimamente epici,
specifici di spiriti elementari che senza casa, vagano per
l’etere prendendo per il culo il resto
della popolazione incarnata. Lo
sentiamo tutti, ogni giorno, attorno a
noi si condensano e si vaporizzano memorie e sostanze del vissuto delle persone, sottili
reminescenza luccicante che chiamiamo memorie,
atti e tragedie viste e sentite che
con l’andare del tempo si concentrano riducendosi a flash mnemonici incomprensibili. Se per esempio dico che vicino al cimitero di Trecasali, si sono visti fantasmi scorreggioni nel
mese di Gennaio dell’ Anno Santo, posso credere che siano elementi di
suggestione. Qualcuno chiarirà che ad
averli visti, è stato un tal Mingon Cantinonebotte che si sapeva
rientrare spesso ubriaco per quella strada. Ciò non toglie che nei pressi di
quella terra consacrata, si siano
materializzate forze e sentimenti destinati a persistere nel tempo. La gente
costruirà incredibili storie , un po’
reali e molto immaginarie su quel luogo, si
creeranno energie sottili che andranno ad annidarsi nei vissuti
comuni. La specialità di Antonio Tacete è proprio questa, la sua penna è un
bastone da rabdomante, uno strumento incomprensibile ma profondo nella
tradizione dell’incomprensibile , lo
impugna per sentire le
vibrazioni non dell’acqua nel sottosuolo,
bensì dei fantasmi annidati
nelle aure vitali di tutti gli esseri viventi. Ci mostra come questa virtualità è discendente verso gli
inferi piuttosto che ascendente verso i cieli, come nel destino delle cose
risulti più facile cadere che non alzarsi in volo. Così riesce a dipingere
multicolori arazzi incomprensibili ma vivi, una specie
di acquario meraviglioso dove
pesci misteriosi dalle fantasiose ed inutili caratteristiche, girano su se stessi senza un’ apparente
significato. Sfido fra l’altro chiunque ad interpretare le assurde forme multicolori di pesci dalle forme
assurde, che comunque accettiamo
unanimemente.
Ad uno sguardo superficiale, sembra che il suo lavoro si concentri esclusivamente sull’aspetto
surreale, come se volesse cogliere unicamente la distorsione della realtà, una dilatazione forse voluta o magari subita,
nella quale domina la mancanza di preoccupazione per la forma espressa.
A tale critica io rispondo che se Tacete non
rispetta i canoni formali di espressione, allora dobbiamo contestare
tutte le forme di espressione
culturale nelle forme mediatiche alle quali siamo sottoposti giornalmente.
I - Nani sbodenfi, Tirabussamen Nanatale- vivono nel nostro mondo, ne
abbiamo pieni gli occhi in ogni giorno, come anche siamo invasi
da tutti quei - Topi nani che squittiscono messa in latino- Ogni istante nelle televisioni di stato.
Credo che ognuno di noi alla fine
preferisca sempre : -una meretrice in un vicolo impisaiento di Napoli- al delitto perfetto della realtà alla quale
siamo vincolati per volere sopra locato. E se la cultura popolare dominante
ci sembra una fiaba senza senso,
ecco che una precisa critica etica si riassume in un indefinibile assurdo
linguaggio.
Il
surrealismo nell’espressione attuale, è
la formula standardizzata dell’
elaborazione di una materia sociale che non ha più ne un principio ne una fine.
Qual è la linea sottile che definisce il limite fra il reale ed il surreale? E’ forse la logica dei media contrapposta
alla nostra esperienza? Della televisione
antagonista della realtà quotidiana ? O forse solo il
logos espressione della
massa fattasi sempre più
soggiacente a potentati economici che
distorcono ogni ordine di idee? Tacete demolisce lo standard del
surrealismo da quattro soldi dilagante per entrare nella dimensione metafisica,
il suo apparente caos cognitivo è in
realtà una potentissime lente d’ingrandimento, un microscopio che entra nella composizione della materia per
evidenziarne gli elementi costitutivi.
I suoi personaggi, sono apparentemente virtuali, non sono certo umani nel senso
stretto, infatti non conoscono il concetto del male. Agiscono sotto l’ impulso
di una catena di eventi in senso casualistico,
ma poi divengono perfettamente credibili
con un processo inverso di umanizzazione. Ciò che è virtuale
apparentemente esula dall’aspetto umano
pur mantenendo elementi comunicativi, una segreteria telefonica è prettamente virtuale, l’uomo scompare dietro di essa
e sprofonda in un mondo del nulla che lo annichilisce. Nei personaggi di
Tacete, pur uscendo da un punto di partenza impercettibile,
l’uomo si ripresenta con il suo immenso
greve di difetti, e trionfa sull’ elemento
scientistico in quanto non apparente e
non in grado di recare in dote elementi difettosi. Straordinaria è la costante
fulminea apparizione dei mostri sacri della cultura, così biecamente
ridicolizzati da un sistema scolastico che trova nelle app per
Smartphone il più preciso veicolo.
Tacete ci rammenta sbattendoceli in faccia grottescamente deformati,
quanto male sia stato fatto loro, e
quanto di rimessa ne si stato fatto alla collettività, ormai incapace di pensare se non attraverso le brochures degli
sconti alla grande distribuzione. E’ autore difficile da capire, la sua difficoltà
risulta direttamente proporzionale alla facilità della lettura, per paradosso sono le cose più
evidenti a non essere vedute. L’artista
Christò, deve grottescamente tappezzare un meraviglioso lago per far si
che le mandrie di bipedi ruminanti, nani e giganti, con corna ramificate e
zoccoli foderati d’amianto verde smeraldino fumanti sigarette arrotolate in
stracci imbevuti di benzina,
accorrano ad ammirare le sue
bellezze distrutte dalla stessa
commercializzazione dell’immagine.
Questa critica è spietata, tale quale quella del nostro indefinibile scrittore, detto poeta o forse
diversamente romanziere, come si usa fare
oggi per incasinare le semplici
evidenze. La critica di tacete è
terribile come il mondo che lui non accetta. Lo presenta sotto il suo personale
programma virtuale di devastazione, fosse stato un tecnico informatico
avrebbe certamente scelto la carriera
dell’hacker, attratto dal demone di una
violenza filosofica sul
paradigma ideologico comunemente riconosciuto.
Così tutto può divenire il contrario di se stesso, il tempo reale
scompare d’incanto, sostituito dal suo doppio o dalla sua metà che poi danno lo
stesso risultato. In un tempo dove il virtuale ed il reale si scambiano la
funzione, dove in pittura Duchamp decontestualizzando il sistema
rappresenta con l’orinatoio l’ opera d’arte ormai incapace di
manifestare se stessa .
Conseguentemente risulta naturale invertire le due fasi lunari, la
visibile e l’invisibile. Così scompare
il mondo della tradizione, viene
sostituito da un mondo dell’anti - tradizione, del modernismo arrogantemente idiota, dei modelli cangianti su colori
complementari non armonizzati, degli
strumenti di tortura personale come gli
smartphone. Il sesso. Il lavoro,
l’identità, il genere scompaiono senza
poter ambire ad una vendetta, vendetta che viene consumata freddissima dal
nostro diversamente poeta o romanziere ed anche diversamente intellettuale.
Tacete è arrogante, lo capiamo, ma solo per le menti fini, è naturale che con
un microscopio non si possano vedere che le forme apparenti non i
particolari. Noi nel frattempo,
riteniamo idoneo stupirci della consueta stoica banalità della nostra
esistenza, chiusa nel ghetto del format comportamentale al quale ipnoticamente
siamo obbligati ad obbedire da
condizionamento post ipnotico. Viviamo senza speranza nel territorio di trans devastati, che ci vengono proposti a
Ciucciare capezzoli a forma di girino del proprio sovrano; è nella logica dell’appartenenza che si
genera questo mondo difettosissimo. Tacete non ha sovrani ai quali ciucciare
capezzolini a forma di rane di Ranuccio, e per questo motivo che rimane integro come luce lunare. E nella sua
integrità etico emotiva, muove a suo
piacimento mostri nani e giganti piccini che si intersecano nella fantasia collettiva senza essere riconosciuti. Egli, consapevole o meno, solo l’ Altissimo
potrà provarlo, propone una terribile quanto meravigliosa tecnica con la quale
esteriorizza la degenerazione
sociopatica dei nostri tempi, ma la cosa più importante è che solo lui è in condizione di proporla. I disastri
sociali vengono presentati perfettamente in forma di spot
pubblcitari, gli unici sistemi che siamo in grado di comprendere, nella nostra
perfetta ipnosi collettiva. Certo, la sua opera si discosta brutalmente
da quanto può essere mentalizzato dalla
schiera di testoline scriventie balbuzienti,
che sviolinano melodrammatiche storielline fatte di amorini e droguggia spacciata nelle metropoli nane ,
per tentare di minare la scorza ormai blindata dei nostri cuori infranti . Nel
melodramma che scaturisce dal dolore
inconscio causato dal delitto
perfetto della sottrazione della realtà, i personaggini e personaggioni di Tacete faticano a trovare
spazio. Il melodramma si nutre di perfezionismo freddo e manierista, modalità
strutturata per soccorrere piccoli
piccini borghesi nani con piedi giganti nascosti da calzini di
cartone ondulato rubati dall ex Salamini. Per tale fatto l’autore non riesce a trovare la via per centrare il
cuore dell’espressione satirica in
voga. Villa il nano come un Joker a
scala quaranta, guizza fuori dallo
schermo televisivo fra un tele rimbambimento della D’Urso e le previsioni
atmosferiche, sghignazzando dei nostri
difetti, proponendoceli senza vergogna alcuna.
Ma se assuefati all’amaro Montenegro non cambiamo
più canale, o peggio non buttiamo il teledemolimentizzatore nel cassonetto
degli ingombranti, dovremmo in questo caso
ridere della nostra fragilità, piuttosto che credere alle lusinghe del Prostamol. Temo che la reazione caratteriale della maggior parte della massa
lettrice di bugiardini farmaceutici,
rimarrà atterrita all’ evidenza
che se: “Dalla finestra gli studenti
malefici e il nano Villa vedevano su una collinetta gialla di camomilla in un giardino interno
cani arancioni crocifissi – ritti
con le zampe posteriori e quelle davanti levate inchiodate ad una croce e latravano ed erano come una
fontanina vivente perché pisciavano in quella posizione” se ne provi disgusto e
dolore.
Le Lucciole nella Lana delle Pecore è uno pseudo
romanzo, un diversamente romanzo
confezionato in abito mediatico, all’interno del quale la realtà viene
fissata da un’ oscuro operatore. Contrariamente al Tigì delle venti si annuncia
delicato, quasi armonioso ,
senza omicidi, l’autore ci
presenta la sua visione d’insieme del
mondo catodico senza sottoporci ai
soliti scossoni di cronaca nera o di oscura e terroristica politica internazionale. Di tanto in tanto ci appaiono rosee nostalgie parmensi e
personaggi letterari, credo che essendo la natura di Tacete profondamente
letteraria, pure nelle sue ossessioni, egli ci voglia preparare ad un decorso dell’ opera di stampo Dantesco. I suoi servizi di
cronaca dal mondo virtualmente distorto, acquisiscono un respiro più ampio fra
Siena, Roma e la Svizzera, passando per Lucca. Progressivamente la
narrazione acquista temi più tragici,
come in un buon Tigì che si
rispetti. la cronaca non tarda a farsi vedere, emblematico è l’episodio della
nonna Scheletrulipana che
friggeva patate come fossero pepite d’oro
e pagava i suoi debiti con le
croste di lebbra della madre. I protagonisti,
appaiono e scompaiono
destrutturati, decontaminati dal
comune , ripuliti dell’idiozia
imperante, riappaiono integri nella
loro funzione di mostri arcaici della
nostra anima. Jung avrebbe di che
sbizzarrirsi sul contenuto collettivo archetipico di elementi distillati in eoni di percorso delle razze umane fino ad oggi, mostri che
si ripresentano così ritualmente
nella logica illogica dell’opera,
deformi e demonizzati, ma
sempre rappresentativi di una
appartenenza al nostro mondo,
comunque oniricamente camuffati da personaggi dei fumetti. Il decorso
post operatorio dei personaggi è
incerto, mentre le pagine scorrono si fa incerto e si inizia
a subodorare un precipitare degli
eventi. La parte centrale dell’opera è alla stregua di un precipizio nel quale cadono le nostre speranze, il quadro clinico dei
personaggi peggiora misteriosamente, e se nelle pagine iniziali ci illudiamo possa esistere una fragile speranza di redenzione,
successivamente tale aspettativa ci viene revocata. Così Garoffano Mortuari
vestito da Dandy . . .dentro la tasca
faceva partire, passeggiando, come proiettili di piombo,simili a gocce di
rugiada ferendo i passanti. E ancora: . . . con sangue per inchiostro prelevato
da omini assassinati nel quartiere
degli omicidi. Tacete non ci lascia
speranza, il suo mondo, ma attenzione pure il nostro, è in via di
sprofondamento. Come un vascello
silurato sta imbarcando acqua
e inabissando fra i flutti gelidi del mare del Nord. L’ occulta opera Dantesca insiste sul fatto che vi sia una speranza oltre il cammino nel
terrore delle anime perse, Le
Lucciole nella Lana delle Pecore sembra precludercelo. Forse tutto va letto in
chiave onirica, il significato palese drammatico può essere
interpretato con una chiave di
lettura latente ai nostri occhi. Le nevrosi si fanno pesanti, precipitano in
psicosi che se alziamo gli occhi dalle pagine intravvediamo immediatamente nel caos biblico che ci circonda. Il libro
entra nelle nostre menti cartellizzando
i nostri spettri personali, per
renderceli ipnoticamente
accettabili, come dovremmo disgustarci del nostro vomito, in certi casi, senza
pensare all’eccesso di libagioni che lo ha prodotto. L’ autore emotivamente,
vive in prima persona le psicosi collettive di cui si fa documentarista, le vive scaricate del
valore affettivo, consentendo loro di
vivere nella vita di tutti i giorni,
senza l’effetto
compensativo di determinare un
comportamento ossessivo di protezione. La prosa si fa difficile, non in quanto grammaticalmente a volte privata di punteggiatura, e in quanto tale
più autentica. Non potremmo chiedere
ad un sogno di avere una scenografia perfetta, perderebbe la sua entità
spirituale , soprattutto in un mondo dove la spiritualità si è ridotta al
numero da chiamare per donare due Euro
alla lega per la salvaguardia delle suole di caucciù dei Gauchos argentini nani, obbligati a cavalcare cavalli a tre zampe,
con un trotto disarmonizzato e pertanto
difficili da montare soprattutto dai soggetti afflitti da emorroidi. Il sogno
andrà sempre interpretato,
pertanto la scarsità di vincoli grammaticali certi, ne accentua la sua veridicità. Il difetto del
sogno tuttavia è di diventare
difficile quanto più il linguaggio si fa crudo, e se è meraviglioso raccontare di un
sogno leggiadro, risulta impossibile
narrare le nostre più bieche attitudini
riviste in un incubo.
Le nostre anime
ipocrite stentano sempre a riconoscersi nella parte malvagia che ci
riserva la dualità del cosmo, vorremmo per istituzione essere riconosciuti
appartenenti alla categoria degli
Elfi, in mancanza di tale affiliazione ci illudiamo ammirando estatici le storie puerilmente
fantastiche, dove la cinematografia ci
riconduce sempre ad un buon fine.
L’autore materializza i
propri incubi cinematografici in: - Dove stavano mangiando a d un tavolo
Moravia, Pasolini, Fellini e Sandro
Penna e ad un altro la Lollo, la Loren
e Alberto Sordi e come succede in una
favola il nano salutò il reverendo ed
entrò nella pellicola e nel film.-
Precisando che il nano entrò
prima nella pellicola che nel film, ci riconduce ad un girone dantesco dove il Sommo poeta rivede i
personaggi della propria epoca per sua
fortuna non mediatica. Alla stessa stregua Tacete subisce compulsivamente queste presenze, le disgrega
dal contesto e le rende appartenenti alla categoria spettrale di
Villa il Nano, piaga biblica che come un angelo devastatore demolisce progressivamente tutti i miti infantili. In particolare, forse nel punto massimo del suo sonno REM vigile,
Tacete ci conduce verso la dissoluzione virtuale di tutto l’assioma
catto-cristiano ideologico e come un
fondamentalista filosofico distrugge il
costrutto iconico con una bomba a frammentazione di quelle lanciate
democraticamente negli ultimi tempi: Caracalla stuprava la madonna con una vescica
di maiale come anticoncezionale.
Le Lucciole nella Lane delle Pecore non ci lascia scampo, non ci propone alcuna
via di fuga, nessuno si salverà da se
stesso, un ‘ opera dantesca che ritorna nell’ inferno dal paradiso dal quale è
partita.
La sua linea di pensiero si staglia talmente sopra le nostre abitudini fino ad
apparirci incomprensibile, inintelligibile, la sua satira troppo cruda fino ad
essere dolorosa perfino per i sensi, ma è da questo presupposto che ci viene
una riflessione. Ci si chiede quale sia
il limite non etico, il livello di sopportazione della forza satirica che ci colpisce, e perché siamo sensibili a
certi temi piuttosto che ad altri. Per
quale motivo cerchiamo sempre in
letteratura, in cinematografia,
stili armoniosi se la nostra
coscienza nasconde le più inumane tendenze. E’ forse così disdicibile
il cinema Horror? Decenni di
storie demoniache ci hanno assuefatti’; il mondo della celluloide
è stato sdoganato da qualsiasi
responsabilità etica e culturale per la
sua tendenza all’ orrido forse solo per
questioni economiche di business?. Credo che tutto quanto si maligno
ma sopportabile debba considerarsi alla stregua di un veleno, l’ abituazione
ci consente di sopportarlo,
differentemente da una sostanza che determini uno shock. Le nostre nonne ci dicevano che la medicina
deve essere amara, la modernità ci
propone farmaci perfettamente inutili
resi gradevoli al palato, per esclusiva
motivazione economica in un perfetto adattamento alla tossicità. Credo che in
ambito culturale il meccanismo sia identico,
tutto l’orrido che ci circonda
entra a far parte della cultura, la
massa è sottoposta a terapia di
cronicizzazione sotto l’azione di continue piccole dosi di orrore mediatico. Tacete ha il pregio e la
sventura di non conoscere le dosi farmaceutiche, la sua identità filosofica è assoluta, irremovibile, per trovare sfogo si
maschera, cambia livrea,
camaleonticamente prende i colori dell’ambiente che frequenta. Puerilmente utilizza mezzi e immagini senza
smussarne le spigolaure, come se
l’uomo Antonio Ugolotti Serventi abbia
rifiutato la tenzone con un mondo di
grandi adulti piccoli piccolissimi nani.
Egli non apprezza commisurarsi, sebbene ne abbia i mezzi,
con l’ establishment culturale letterario corrente, preferisce il suo mondo
colorito e sproporzionato. Mi perdonerà questa definizione, ma vedo in lui l’
essenza del bimbo adulto gigante nano, che non intende
commisurarsi ad una società di bamboloni adulti nani. Rifugge l’
ambiente comune e chiede
collaborazione ai suoi personaggi che
gli vengono in aiuto. Noi possiamo restare
amabilmente esclusi dal suo mondo , ma con un piccolo sforzo di
ridimensionamento verso il basso della nostra presunzione, possiamo entrarvi
tranquillamente.
Nelle ultime pagine, Le lucciole nella Lana delle
Pecore diviene definitivamente un ‘antiromanzo, le virgole si disperdono come
soldati reduci dopo una battaglia, i tempi ed i luoghi si confondono come in un sogno incombente di un
facchino dopo dodici ore di lavoro. L’autore senz’altro sente la bacchetta
vibrare all’impazzata avvicinandosi al contenuto delle sue idee,
sente sempre più che Il mondo si
capovolge sovvertendo le regole ferree che la fisica newtoniana ci aveva
lasciato. L’antiromanziere Tacete che è anche antipoeta antibanale, ci lascia una terribile condanna, scritta con il fuoco della sua allucinata visione: saremo costretti a
perire, a morire soffocati, martoriati,
smembrati da innumerevoli diavoli occulti venuti a popolare le nostre serate direttamente dall’etere. E se
nessun ingegnere, o accademico, o
prete, o tramviere, sa cosa sia l’etere questo non importa, noi staremo lì indefessi con il petto volto
alle raffiche che rispondono al nome
del Sanbitter c’est plus facile, Chi
vespa mangia le mele, colore chiaro gusto pulito è Glen Grant ecc, ecc per
citarne alcuni. Tacete non ci fa
sconti, conosce l’altra parte della luna, deve averla vista in sogno, oppure
qualche diavolaccio screanzato deve avergliene parlato, mentre l’opera volge al termine, e
certamente pure il suo furore creativo,
prende piede nella sua mente la
certezza dell’abbandono del raziocinio come destino fondamentale dell’uomo
Telesapiens di ultima generazione.
Badate bene, non c’è nulla di immorale nel trascrivere le proprie
drammatiche furie psicologiche, questo
mondo è di per se una furia, un vortice di menzogna ed inganno, di
trasformazione del visibile in dottrina
sincretica. Tutto si può elaborare in tempo reale in un linguaggio
simbolico post moderno riconvertito e
ridimensionato, di certo invertito nelle sue funzioni. Come dice la sua origine lessicale il simbolo nasce
per unire, i grandi filosofi riunivano il sapere, oggi i grandi mediatici
dividono ogni cosa in sottocategorie. L’opera di Tacete tenta invano l’opera di
ristrutturazione del significato simbolico attraverso il paradosso,
tuttavia di questo ci rimane una
traccia una direzione precisa. Nella
terapia psicoanalitica riconosciuta, si
attua l’esame dei sogni per rappresentarne
il loro aspetto in lingua simbolica, certamente il setting analitico ne sdogana
l’irrazionalità sotto il meccanismo del motore inconscio. Ma è proprio il serbatoio comune archetipico che ci
conduce per la via della tradizione che va recuperata, i
simboli dell’opera di Tacete sono fortissimi pur distorti, ed è nella distorsione degli stessi che se ne trae quel
senso di amaro. Sentiamo viva una sobbollente
sofferenza nella sua tragica satira, vediamo capovolti tutti i crismi della ragione con la quale abbiamo
condotto l’esistenza. Una sottile
terribile nostalgia delle regole naturali tanto distorte dall’ anti poeta, tanto angoscianti nel
desiderio di essere recuperate .
Sarebbe buona speranza riuscire a ridirezionare la nostra marcia attraverso il
sistema di input, output che da quanto
detto ne deriva. Detestando gli inglesismi come spesso mi accade, direi che
l’idea finale dell’opera di Antonio Ugolotti
Serventi Tacete, ci dovrebbe far sorridere dei nostri spettri personali,
ma tale catarsi dovrebbe accendere la
scintilla di una sacra riflessione sul
quanto siamo degenerati nel mondo
attuale. Pertanto se l’ attore
Albertone Sordimuticiechi aveva alle
mani fori di stigmate dove perdeva per
terra le monete; per compensazione
dovremmo comprendere come in un
cantinaccio alcuni norcini stuprarono Villa il nano con delle luganiche ed un’ altro prete diceva Mangiassero
cicogne e il maligno perciò si fosse
impossessato,più in avanti negli anni
questi per un editto pontificio, che vietava di mangiare i trampolieri
bianchi furono giustiziati dal boia.
Racas commenta sul sito "ParmaRepubblica.it" il libro "Le lucciole nellalana delle pecore"
Che cosa ci fanno insieme Giacomo Leopardi, dei body builder, il filosofo Jean Jacques Rousseau, Ernest Hemingway e Villa il nano? La risposta, forse, la potrete trovare tra le pagine di “Le Lucciole nella lana delle pecore” (GuaraldiLab, euro 10), ultima fatica letteraria del parmigiano Antonio Tacete (in foto), “vin santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park”. Così si definisce in epigrafe l’autore.
Lo scrittore Guido Conti considera Tacete “un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro”.
Una poetica che si ritrova tra le pagine dell’ultimo romanzo. Romanzo per così dire. Perché quelle di Tacete sono pennellate di scrittura, vorticose, inarrestabili. La sua penna sembra un pennello in mano a un pittore dell’Action Painting: frasi lanciate sulla carta. Villa il nano (alter ego dell’autore?), il “protagonista”, nel suo vagare atemporale, caotico e senza meta, passerà da San Secondo a Parma, da Firenze a Roma, alla Svizzera, arrivando in taxi fino a Honolulu. Questa sua “odissea” lo condurrà a essere spettatore e attore, in uno stesso tempo, di vicende surreali, oniriche, autentici “pastiche” letterari. Verrebbe da pensare a un film di Federico Fellini.
Quella di Tacete è una narrazione che si fa beffe delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Le fa a pezzi, destrutturando perfino la lingua, priva, per lo più, di punteggiatura. Quasi come in “Birdman”, il flusso narrativo potrebbe proseguire all’infinito, ben oltre le centinaia di pagine in cui è costretto. Romanzo metafora delle immagini televisive che invadono le nostre vite? O forse del caos babelico che inonda i social network? Farsesca e tragicomica rappresentazione del mondo? Ai lettori l’ardua sentenza. (racas)
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Racas commenta sul sito "ParmaRepubblica.it" il libro "Le lucciole nellalana delle pecore"
Che cosa ci fanno insieme Giacomo Leopardi, dei body builder, il filosofo Jean Jacques Rousseau, Ernest Hemingway e Villa il nano? La risposta, forse, la potrete trovare tra le pagine di “Le Lucciole nella lana delle pecore” (GuaraldiLab, euro 10), ultima fatica letteraria del parmigiano Antonio Tacete (in foto), “vin santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park”. Così si definisce in epigrafe l’autore.
Lo scrittore Guido Conti considera Tacete “un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro”.
Una poetica che si ritrova tra le pagine dell’ultimo romanzo. Romanzo per così dire. Perché quelle di Tacete sono pennellate di scrittura, vorticose, inarrestabili. La sua penna sembra un pennello in mano a un pittore dell’Action Painting: frasi lanciate sulla carta. Villa il nano (alter ego dell’autore?), il “protagonista”, nel suo vagare atemporale, caotico e senza meta, passerà da San Secondo a Parma, da Firenze a Roma, alla Svizzera, arrivando in taxi fino a Honolulu. Questa sua “odissea” lo condurrà a essere spettatore e attore, in uno stesso tempo, di vicende surreali, oniriche, autentici “pastiche” letterari. Verrebbe da pensare a un film di Federico Fellini.
Quella di Tacete è una narrazione che si fa beffe delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Le fa a pezzi, destrutturando perfino la lingua, priva, per lo più, di punteggiatura. Quasi come in “Birdman”, il flusso narrativo potrebbe proseguire all’infinito, ben oltre le centinaia di pagine in cui è costretto. Romanzo metafora delle immagini televisive che invadono le nostre vite? O forse del caos babelico che inonda i social network? Farsesca e tragicomica rappresentazione del mondo? Ai lettori l’ardua sentenza. (racas)
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