lunedì 5 ottobre 2015

Presentazione




Antonio Tacete nato a Parma il 18.03.1970 si è laureato in Conservazione dei Beni Culturali con tesi sul pittore pittore settecentesco Giovanni Paolo Panini. Si considera l'incarnazione del poeta francese Robert Desnos e ha pubblicato i seguenti libri:
La casa di Standhal
Il pozzo medievale
La città dei formaggiai e il bambolone nano
La bibbia dei topi
Il formichiere elettronico
L'invasione delle cavallette
La sigaretta all'incenso
Le lucciole nella lana delle pecore



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Antonio Serventi detto Tacete è un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro. Se si dovesse illustrare un suo dipinto saremmo di fronte ad un quadro di Bosch. Un elogio della follia letterario. Tacete, (più che uno pseudonimo, un imperativo verso tutti gli altri scrittori del mondo!) ci porta in un inferno più che padano, scavando nella psiche di un uomo che non ha barriere razionali. Tacete non è uno scrittore di questo tempo, viene dal cinquecento, per questo non sarà mai pubblicato dai grandi editori. Resterà per sempre un figlio del Folengo e di Bosch, reincarnazione presente del poeta Robert Desnos. E il suo nome imperativo, pesa tremendamente di fronte a tutti quei libri che escono oggi, scritti bene, ma senza sapore, senza sangue. Il mondo in rivolta di Tacete, con il suo protagonista Villa il nano, spegne ogni velleità letteraria altrui. La scrittura è monito, avvertimento, strada da seguire e fuggire, modello e fuga. Un autore di nicchia per appassionati da leggere con passione e ardimento.

Guido Conti

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Interviste a Antonio Tacete


Intervista a Antonio Tacete febbraio 2014

Daniela Stecconti legge Tacete aprile 2014 (Il teatro dei topi)

Daniela Stecconi legge Tacete aprile 2014 (L'invasione delle cavallette)

Intervista a Antonio Tacete gennaio 2014

Intervista a Antonio Tacete dicembre 2014

Intervista a Antonio Tacete 20 marzo 2015

Intervista a Antonio Tacete settembre 2015

Intervista a Antonio Tacete novembre 2015

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Danilo Bianchi commenta Antonio Tacete...
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Villa il nano, sarà veramente un nano? Guardando il viso pacione di Antonio Tacete viene  da farsi qualche domanda. Guardandolo nell'occhione tondo del calamaro gigante, pescato in Taro nella piana della Magrina nel 1957, verrebbero da porsi seri dubbi. Abbiamo saputo che Villa il nano, molti anni addietro, vendeva cipolle toscane che non fanno piangere. Le teneva in una cesta fatta di serpenti seccati e poi aggrovigliati come vimini bulgari, montata Pedoca, aveva una camminata strana che gli faceva fare un salto ogni tre passi, ma siccome che era alto come il marciapiedi di Via Mazzini non lo dava a vedere tanto. Villa il nano era cugino dei nonni di Pinen Merendino  che stava sempre seduto sulle panchine del parco Ducale, anche quando pioveva, mangiando continuamente pezzi di sigaro toscano con le cipolle, che gli procurava il cugino.
Antonio Tacete conobbe Villa a Grotta di Iggio alla gara di Sandron che vinse una damigiana di vino americano analcolico, sfidando nella discesa di Pellegrino una motocicletta nera, che funzionava a piscia diluita con il carburo. Sandron vinse, bevvero la damigiana lui, Tacete, Villa il nano, che per l'occasione invitò la nipote del sindaco del quartiere Corea di Fidenza, che si chiamava Mastina. Si ubriacarono lo stesso e Tacete fece il giuramento di non scoreggiare più per la Vigilia di Pasqua.Poi divenne poeta filosofo,scrisse le preghiere per la canonica dei frati dell'ordine della giarattiera slabbrata, ma quei testi non piacquero ai frati, che preferirono leggere le cronache del giornale Stop.Io conobbi Tacete per caso sotto il ponte Taro a Fornovo mentre cercavamo margherite nere metalizzate a quattro petali, rarissime, che ci avrebbero pagate a peso d'oro. Fu in quell'occasione che mi parlò delle sue poesie moderne, mezze poesie e mezze preghiere celtiche, io non gli credetti e pretesi di leggerle per farmi un'idea. Capii che la prosa poetica era un artificio che Antonio usava, per vedere di notte,spesso alla stazione dei treni quello che sarebbe successo il giorno seguente. Fu facile rendersi conto che noi,che giriamo di notte, facciamo fatica a prevedere il futuro,ma soprattutto non riusciamo a capire un tubo di tutto quanto ci circonda ed è attraverso questa sua vista simbolica dissociata che Antonio Tacete sviscera mediante il sarcasmo esasperato oscuri e misteriosi legami che coinvolgono fatti e personaggi apparentemente comuni. Un racconto onirico ad occhi aperti.è la sua poetica, un sogno che ci parla con la modalità espressiva dell'inconscio collettivo. Le sue vicende recano marcatori metafisici, che si sono generati in tempi e spazi caratterizzati da parametri inconsueti, che trascendono l'armonia algebrica con la quale noi cerchiamo di decodificare la realtà. Antonio Tacete parla una lingua che utilizza i messaggi subliminali dell'inconscio, piuttosto che i fenomeni ai quali ci hanno predisposto. Un parlare privo di legami idiomatici soliti, ma neo-generati attraverso un processo di distillazione delle emozioni e dei simboli fondamentali depositati in ognuno di noi, un processo che trasforma la lingua conosciuta in una serie di segni icofonici da scoprire.Peravvicinarsi alla lettura di Antonio Tacete ci si deve depurare dei conformismi inutili, delle suggestioni predisposte dalla cultura comune d'immagine, sgravare dei pregiudizi sessuali e razziali, e dopo tale procedura può avvenire l'iniziazione del suo linguaggio criptico. Consiglio vivamente di leggere Tacete dopopranzo, quando l'influsso pacificante delle libagioni ci predispone ad una sperimentazione linguistica peraltro comicissima. La comicità più pura che io abbia mai sperimentato, rappresenta la sua grande forza espressiva e comunicativa. Con questo tuttavia rimarrà sempre il dubbio che Villa il nano non fosse stato in realtà un nano, ma semplicemente una dizione caratteristica nelle accezioni dialettali parmensi, con ciu si intende un giovanotto oppure una persona a noi vicina. Io nonostante tutto,preferisco pensare che Villa il nano abbia avuto una storia torbida con il figlio bambolo del mezzadro del podere Piroppi di Bogolese, quello che morì dopo la sfida delle uova e vino bianco con Palandrone di Morfasso che era venuto a Parma per vendere il brevetto della macchina per pescare il pescegatto.




ALESSANDRA GRANDI commenta il racconto“Le Lucciole nella Lana delle Pecore”

Alla quattordicesima  pagina de: “Le Lucciole nella Lana delle Pecore”, non ho più resistito all’idea di scrivere ciò che mi suggeriva   Antonio Tacete. Una cosa    semplice come  la discussione  al bar del Lino,  fra milanisti e Juventini , riferita al  celebre episodio  della    stagione  1998-1999 Milan Juventus 1-1 Quattro rigori a favore del Milan, di cui tre negati. Ho provato a concentrarmi sulle reminescenze della mia precedente vita trascorsa a cincischiare la pittura, ma   in quello strano mondo,  gli artisti o presunti tali,  più che nella letteratura trovano sempre  una casa in cui essere ospitati.  Nel frattempo  ha  continuato  a  balenare nel mio cranio, la figura  di un cavedanone  gigante  (detto  Ginon  ) che  si sapeva scorrazzare  nelle acque della  piana del Taro alla Magrina di Bianconese. E’  certo che il  terribile ciprinide,  era stato visto gingillarsi  con le cavedanesse del posto,  indossando  una collana di ami bronzati Tubertini del quattordici , rubati di  nascosto a tre  pescatori gay  del circolo dopolavoro ferroviario di Fidenza, i quali avevano sottoscritto   una raccolta di firme coi colleghi  pescatori  del “Rapid,” per perseguirlo penalmente.
L’ idea  malvagia si  agitava  nel   dubbio   se Villa il Nano fosse un nano di  statura, oppure  un mostro stabilmente residente nella mente del suo  autore. Il demonio mi suggeriva, che   nascondeva  occulti significati.  Provai  con l’alfabeto runico, ma  trovai solo un vago wyn – al man – o  o nan- o che non dicevano un bel niente,  a quel punto   mi  venne in mente un camionista che  frequentava il bar di mio papà quando io  ero poco meno che ragazzino.  
Era  Mario, e  da li Marien fino a Jen, ma lui non amava il diminutivo perché diceva  fosse simile a Gugnen.  Non faceva un metro e mezzo di persona ,  aveva un vocione  rauco che  sembrava la grattata di una vecchia cinquecento  dalla prima alla seconda marcia.
Prendeva per il culo tutti, raccontava   dei suoi  viaggi sparando  balle che sembravano mine da marina, io lo ascoltavo, e  volevo credere fosse tutto vero. Da lui  avevo sentito  di cameriere cannone e cani imbastarditi con animali marini, anche di un serpente saltatore, che  volava di albero in albero.
Antonio  è un tipo che quando  lo ascolti, senti che  vuole  essere profondamente superficiale, ma è  tutta  apparenza, in realta è profondamente  profondo, nel modo che spiegherò fra breve.  Guarda sempre in basso, come un cercatore di lumache giganti, arancioni come stradini ,  scrivendo  si esprime su argomenti filosofici, portando  con sé  l’ antigene della  moderna spocchiosa cultura semplificata . Spacca in più parti il senso logico degli eventi,   ti sta raccontando qualcosa ma contemporaneamente fa si che tu  non gli  dia peso. Qualcuno sostiene  che    sarebbe carente di  senso narrativo, lo dimostrerebbe il fatto che non usa ritmare  il tempo di narrazione, avendo un’avversione mefistofelica per la punteggiatura. Forse che  alle scuole elementari abbia avuto una maestra nana che picchiava i  bambini con le lische di  sardine giganti rosa  choc,  dalle quali pendevano campanellini dorati di formaggio puzzone della val  Gardena? Non si sa, ma  in un certo senso ciò risponde a verità, e ciò sarebbe naturale se la sua prosa fosse  intelligibile dal  senso comune dei lettori nella modalità consentita dal sistema letterario.
 le sue vicende non seguono la  ritualità del raziocinio, la   infrange bellamente,  fischiettando e scoreggiando infischiandosi del concetto di spazio tempo al quale siamo tutti  devoti.  Nel suo libro il tempo è un concetto secondario, trascurabilissimo, così come lo spazio che   si modifica per ospitare meravigliosi mostri  comici di dimensioni incredibili.  Quando lo leggo, mi chiedo sempre come mai nessuno esalti la sua  modernità  da salto quantico, proprio oggi che  la fisica quantistica viene messa pure nella Nutella al posto del pericolosissimo zucchero. Eppure se vogliamo lo sguardo a tutto ciò che ci circonda, nulla ormai risente delle tradizioni, tutto deve  per forza essere innovativo, sperimentale, ma soprattutto alternativo.   Le storie di Tacete sono altamente alternative, vicine ai  canti rituali, sono drammi  minimamente epici, specifici  di spiriti  elementari che senza casa, vagano per l’etere prendendo per il culo il  resto della popolazione incarnata.  Lo sentiamo tutti,  ogni giorno, attorno a noi    si condensano e  si vaporizzano memorie e  sostanze del vissuto delle persone, sottili reminescenza luccicante che chiamiamo memorie,  atti e tragedie viste e sentite che  con l’andare del tempo si concentrano riducendosi a flash mnemonici  incomprensibili.  Se per esempio dico che vicino al cimitero di Trecasali,  si sono visti  fantasmi scorreggioni  nel mese di Gennaio dell’ Anno Santo, posso credere che siano elementi di suggestione. Qualcuno  chiarirà che ad averli visti,  è stato   un tal Mingon Cantinonebotte che si sapeva rientrare spesso ubriaco per quella strada. Ciò non toglie che nei pressi di quella terra consacrata,  si siano materializzate forze e sentimenti destinati a persistere nel tempo. La gente costruirà incredibili   storie , un po’ reali e molto immaginarie su quel luogo, si  creeranno energie  sottili  che andranno ad  annidarsi   nei vissuti comuni.  La  specialità di Antonio Tacete è proprio questa, la sua penna è un bastone da rabdomante, uno strumento incomprensibile ma profondo nella tradizione dell’incomprensibile , lo  impugna per   sentire le vibrazioni non dell’acqua nel sottosuolo,  bensì dei fantasmi annidati  nelle aure vitali di tutti gli esseri viventi. Ci mostra come  questa virtualità è discendente verso gli inferi piuttosto che ascendente verso i cieli, come  nel destino delle cose  risulti più facile cadere che non alzarsi in volo. Così riesce a  dipingere  multicolori  arazzi  incomprensibili  ma vivi, una specie  di  acquario meraviglioso dove pesci misteriosi dalle fantasiose ed inutili caratteristiche,  girano su se stessi senza un’ apparente significato. Sfido fra l’altro chiunque ad interpretare le assurde  forme multicolori di pesci dalle forme assurde, che comunque accettiamo  unanimemente.    
Ad uno sguardo superficiale, sembra  che il suo lavoro si   concentri esclusivamente sull’aspetto surreale, come se   volesse  cogliere unicamente la   distorsione   della realtà, una dilatazione forse  voluta o magari  subita, nella quale  domina la  mancanza di preoccupazione per la  forma espressa.
A tale critica io rispondo che se Tacete non rispetta i canoni formali di espressione, allora dobbiamo  contestare  tutte le forme di  espressione culturale nelle forme mediatiche alle quali siamo sottoposti giornalmente. I  - Nani  sbodenfi, Tirabussamen Nanatale- vivono nel nostro mondo, ne abbiamo pieni gli occhi in ogni giorno, come anche siamo  invasi   da tutti quei - Topi nani che squittiscono messa in latino-  Ogni istante nelle televisioni di stato. Credo che ognuno di noi  alla fine preferisca sempre : -una meretrice in un vicolo impisaiento di Napoli-  al delitto perfetto della realtà alla quale siamo vincolati per volere sopra locato. E se la cultura popolare   dominante  ci sembra  una fiaba senza senso, ecco che una precisa critica etica si riassume in un indefinibile assurdo linguaggio.
  Il surrealismo nell’espressione attuale, è  la formula standardizzata  dell’ elaborazione di una materia sociale che non ha più ne un principio ne una fine. Qual è la linea sottile che definisce il limite fra  il reale ed il surreale? E’ forse la logica dei media contrapposta alla nostra esperienza? Della televisione  antagonista della realtà quotidiana ? O forse solo  il  logos  espressione  della  massa fattasi sempre più  soggiacente a potentati economici che  distorcono ogni ordine di idee? Tacete demolisce lo standard del surrealismo da quattro soldi dilagante per entrare nella dimensione metafisica, il suo  apparente caos cognitivo è in realtà una potentissime lente d’ingrandimento, un  microscopio che entra nella composizione della materia per evidenziarne  gli elementi costitutivi. I suoi personaggi, sono apparentemente virtuali, non sono certo umani nel senso stretto, infatti non conoscono il concetto del male. Agiscono sotto l’ impulso di una catena di eventi  in senso casualistico, ma poi divengono perfettamente credibili  con un processo inverso di umanizzazione. Ciò che è virtuale apparentemente  esula dall’aspetto umano pur mantenendo elementi comunicativi, una segreteria  telefonica è prettamente virtuale,  l’uomo scompare dietro di essa  e sprofonda in un mondo del nulla che lo annichilisce. Nei personaggi di Tacete, pur  uscendo  da un punto di partenza impercettibile, l’uomo si ripresenta con il suo immenso  greve  di  difetti, e trionfa sull’ elemento scientistico in quanto  non apparente e non in grado di recare in dote elementi difettosi. Straordinaria è la costante fulminea apparizione dei mostri sacri della cultura,   così biecamente   ridicolizzati da un sistema scolastico che trova nelle app per Smartphone il più preciso veicolo.  Tacete ci rammenta sbattendoceli in faccia grottescamente deformati, quanto  male sia stato fatto loro, e quanto di rimessa ne si stato fatto alla collettività, ormai incapace di  pensare se non attraverso le brochures degli sconti  alla grande distribuzione.   E’ autore difficile da capire, la sua  difficoltà  risulta direttamente proporzionale alla facilità della  lettura, per paradosso sono le cose più evidenti a non essere vedute.  L’artista Christò, deve  grottescamente  tappezzare un meraviglioso lago per far si che le mandrie di bipedi ruminanti, nani e giganti, con corna ramificate e zoccoli foderati d’amianto verde smeraldino fumanti sigarette arrotolate in stracci imbevuti di benzina,  accorrano   ad ammirare le sue bellezze distrutte dalla stessa  commercializzazione dell’immagine.  Questa  critica è spietata,  tale quale quella del nostro  indefinibile scrittore, detto poeta o forse diversamente romanziere, come si usa fare  oggi per  incasinare le semplici evidenze.  La critica di tacete è terribile come il mondo che lui non accetta. Lo  presenta sotto il suo personale  programma virtuale di devastazione, fosse stato un tecnico informatico avrebbe certamente  scelto la carriera dell’hacker, attratto dal demone di una  violenza filosofica  sul paradigma ideologico comunemente riconosciuto.  Così tutto può divenire il contrario di se stesso, il tempo reale scompare d’incanto, sostituito dal suo doppio o dalla sua metà che poi danno lo stesso risultato. In un tempo dove il virtuale ed il reale si scambiano la funzione, dove in pittura Duchamp decontestualizzando il sistema rappresenta  con l’orinatoio  l’ opera d’arte ormai incapace di manifestare se stessa .  Conseguentemente  risulta   naturale invertire le due fasi lunari, la visibile e l’invisibile.  Così scompare il mondo della tradizione, viene  sostituito da un mondo dell’anti - tradizione, del modernismo  arrogantemente idiota,  dei modelli cangianti su colori complementari non armonizzati,  degli strumenti di tortura personale come  gli smartphone.  Il sesso. Il lavoro, l’identità, il genere scompaiono  senza poter ambire ad una vendetta, vendetta che viene consumata freddissima dal nostro diversamente poeta o romanziere ed anche diversamente intellettuale. Tacete è arrogante, lo capiamo, ma solo per le menti fini, è naturale che con un microscopio non si possano vedere che le forme apparenti non i particolari.  Noi nel frattempo, riteniamo idoneo stupirci della consueta stoica banalità della nostra esistenza, chiusa nel ghetto del format comportamentale al quale ipnoticamente siamo  obbligati ad obbedire da condizionamento post ipnotico. Viviamo senza speranza nel territorio di  trans devastati, che ci vengono proposti a Ciucciare capezzoli a forma di girino del proprio sovrano;  è nella logica dell’appartenenza che si genera questo mondo difettosissimo. Tacete non ha sovrani ai quali ciucciare capezzolini a forma di rane di Ranuccio, e per questo motivo che rimane  integro come luce lunare. E nella sua integrità etico emotiva,  muove a suo piacimento mostri nani e giganti piccini che si intersecano nella fantasia  collettiva senza essere riconosciuti.  Egli, consapevole o meno, solo l’ Altissimo potrà provarlo, propone una terribile quanto meravigliosa tecnica con la quale esteriorizza  la degenerazione sociopatica dei nostri tempi, ma la cosa più importante è che solo lui  è in condizione di proporla. I disastri sociali  vengono presentati  perfettamente  in forma di  spot pubblcitari, gli unici sistemi  che  siamo in grado di  comprendere,  nella nostra perfetta ipnosi collettiva. Certo, la sua opera  si discosta  brutalmente da quanto può essere mentalizzato  dalla schiera di testoline scriventie balbuzienti,  che sviolinano melodrammatiche storielline  fatte di  amorini  e droguggia spacciata nelle metropoli nane , per tentare di minare la scorza ormai blindata dei nostri cuori infranti . Nel melodramma che scaturisce dal dolore  inconscio  causato dal delitto perfetto della sottrazione della realtà, i personaggini  e personaggioni di Tacete faticano a trovare spazio. Il melodramma si nutre di perfezionismo freddo e manierista, modalità strutturata per soccorrere  piccoli piccini borghesi  nani  con piedi giganti nascosti da calzini di cartone ondulato rubati dall ex Salamini. Per tale  fatto  l’autore  non riesce a trovare la via per centrare il cuore dell’espressione  satirica in voga.  Villa il nano come un Joker a scala quaranta,  guizza fuori dallo schermo televisivo fra un tele rimbambimento della D’Urso e le previsioni atmosferiche, sghignazzando dei nostri  difetti,  proponendoceli  senza vergogna alcuna.  
Ma se assuefati all’amaro Montenegro non cambiamo più canale, o peggio non buttiamo il teledemolimentizzatore nel cassonetto degli ingombranti, dovremmo in questo caso  ridere della nostra fragilità, piuttosto che  credere alle lusinghe del Prostamol. Temo che la reazione  caratteriale della maggior parte della massa lettrice di bugiardini farmaceutici,  rimarrà  atterrita all’ evidenza che se: “Dalla finestra gli  studenti malefici  e il nano Villa  vedevano su una collinetta gialla  di camomilla  in un giardino interno  cani arancioni crocifissi – ritti  con le zampe posteriori e quelle davanti levate inchiodate  ad una croce e latravano ed erano come una fontanina  vivente perché pisciavano  in quella posizione” se ne provi disgusto e dolore.  

Le Lucciole nella Lana delle Pecore è uno pseudo romanzo, un diversamente romanzo  confezionato in abito mediatico, all’interno del quale la realtà viene fissata da un’ oscuro operatore. Contrariamente al Tigì delle venti  si annuncia  delicato, quasi armonioso ,  senza omicidi, l’autore  ci presenta  la sua visione d’insieme del mondo catodico senza  sottoporci ai soliti scossoni di cronaca nera o di oscura e terroristica   politica internazionale. Di tanto in tanto  ci appaiono rosee  nostalgie parmensi e  personaggi letterari,  credo che  essendo la natura di Tacete profondamente letteraria, pure nelle sue ossessioni, egli ci voglia preparare  ad un decorso dell’ opera  di stampo Dantesco. I suoi servizi di cronaca dal mondo virtualmente distorto, acquisiscono un respiro più ampio fra Siena, Roma e la Svizzera, passando per Lucca. Progressivamente la narrazione  acquista temi più tragici, come in un buon Tigì  che si rispetti.  la cronaca non tarda a  farsi vedere, emblematico è l’episodio  della  nonna Scheletrulipana  che friggeva patate come fossero pepite d’oro  e pagava i suoi debiti  con le croste di lebbra della madre. I protagonisti,  appaiono e scompaiono  destrutturati,  decontaminati dal comune , ripuliti  dell’idiozia imperante, riappaiono  integri nella loro funzione di  mostri arcaici della nostra  anima. Jung avrebbe di che sbizzarrirsi sul contenuto collettivo archetipico di elementi  distillati in  eoni di percorso delle razze umane fino ad oggi,   mostri che  si ripresentano così ritualmente   nella logica illogica dell’opera,  deformi e demonizzati,  ma sempre  rappresentativi  di una  appartenenza al nostro mondo,   comunque oniricamente camuffati da personaggi dei fumetti. Il decorso post operatorio dei personaggi è  incerto,  mentre  le pagine scorrono si fa incerto e si inizia a subodorare   un precipitare degli eventi. La parte  centrale  dell’opera è alla stregua di un  precipizio nel quale cadono   le nostre speranze, il quadro clinico dei personaggi peggiora misteriosamente, e se nelle pagine iniziali  ci illudiamo  possa esistere una fragile speranza di redenzione, successivamente tale aspettativa ci viene revocata. Così Garoffano Mortuari vestito da  Dandy . . .dentro la tasca faceva partire, passeggiando, come proiettili di piombo,simili a gocce di rugiada ferendo i passanti. E ancora: . . . con sangue per inchiostro prelevato da  omini assassinati nel quartiere degli omicidi.  Tacete non ci lascia speranza, il suo mondo, ma attenzione pure il nostro, è in via di sprofondamento. Come un vascello  silurato sta  imbarcando acqua e  inabissando fra i flutti gelidi del  mare del Nord.  L’ occulta opera Dantesca insiste sul fatto che vi sia  una speranza  oltre il cammino nel  terrore delle anime perse,  Le Lucciole nella Lana delle Pecore sembra precludercelo. Forse tutto va letto in chiave  onirica,  il significato  palese drammatico può essere  interpretato  con una chiave di lettura latente ai nostri occhi. Le nevrosi si fanno pesanti, precipitano in psicosi che se alziamo gli occhi dalle pagine intravvediamo immediatamente  nel caos biblico che ci circonda. Il libro entra  nelle nostre menti cartellizzando i nostri spettri personali, per   renderceli   ipnoticamente accettabili, come dovremmo disgustarci del nostro vomito, in certi casi, senza pensare all’eccesso di libagioni che lo ha prodotto.  L’ autore emotivamente,  vive in prima persona le psicosi collettive di cui si fa   documentarista, le vive scaricate del valore affettivo,  consentendo loro di vivere nella vita di tutti i giorni,  senza l’effetto  compensativo  di determinare un comportamento ossessivo di protezione. La prosa si fa  difficile, non in quanto grammaticalmente a volte  privata di punteggiatura, e in quanto tale più autentica. Non   potremmo chiedere ad un sogno di avere una scenografia perfetta, perderebbe la sua entità spirituale , soprattutto in un mondo dove la spiritualità si è ridotta al numero da chiamare per donare due Euro  alla lega per la salvaguardia delle suole di caucciù dei  Gauchos argentini nani,  obbligati a cavalcare cavalli a tre zampe, con un trotto  disarmonizzato e pertanto difficili da montare soprattutto dai soggetti afflitti da emorroidi.  Il sogno  andrà sempre  interpretato, pertanto la  scarsità di vincoli  grammaticali certi, ne   accentua la sua veridicità. Il difetto del sogno tuttavia è di diventare   difficile  quanto più  il linguaggio si fa  crudo, e se è meraviglioso raccontare di un sogno  leggiadro, risulta impossibile narrare le nostre più bieche attitudini  riviste in un incubo.   
Le nostre anime   ipocrite stentano sempre a riconoscersi nella parte malvagia che ci riserva la dualità del cosmo, vorremmo per istituzione essere riconosciuti appartenenti  alla categoria degli Elfi,  in mancanza di tale  affiliazione ci illudiamo  ammirando estatici le storie puerilmente fantastiche,  dove la cinematografia ci riconduce sempre ad un buon  fine. 
 L’autore  materializza i propri incubi cinematografici in: - Dove stavano mangiando a d un tavolo Moravia, Pasolini, Fellini  e Sandro Penna  e ad un altro la Lollo, la Loren e Alberto Sordi  e come succede in una favola  il nano salutò il reverendo ed entrò nella pellicola e nel film.-  Precisando  che il nano entrò prima nella pellicola che nel film, ci riconduce ad un girone   dantesco dove il Sommo poeta rivede i personaggi della propria  epoca per sua fortuna non mediatica. Alla stessa stregua Tacete subisce  compulsivamente queste presenze, le disgrega dal contesto e le   rende  appartenenti alla categoria spettrale di Villa il Nano, piaga biblica  che  come un angelo  devastatore demolisce progressivamente tutti i   miti infantili.  In  particolare,  forse nel punto massimo del suo sonno REM   vigile,  Tacete ci   conduce verso la  dissoluzione virtuale di tutto l’assioma catto-cristiano ideologico e  come un fondamentalista filosofico distrugge il  costrutto iconico  con una bomba  a frammentazione di quelle lanciate democraticamente negli ultimi tempi: Caracalla stuprava la madonna con una vescica di maiale  come anticoncezionale.
Le Lucciole nella Lane delle Pecore  non ci lascia scampo, non ci propone alcuna via di fuga, nessuno si salverà  da se stesso, un ‘ opera dantesca che ritorna nell’ inferno dal paradiso dal quale è partita.
La sua linea di pensiero si staglia  talmente sopra le nostre abitudini fino ad apparirci incomprensibile, inintelligibile, la sua satira troppo cruda fino ad essere dolorosa perfino per i sensi, ma è da questo presupposto che ci viene una riflessione.  Ci si chiede quale sia il limite non etico, il livello di sopportazione  della forza satirica che ci colpisce, e perché siamo sensibili a certi  temi piuttosto che ad altri. Per quale motivo cerchiamo sempre  in letteratura, in cinematografia,  stili  armoniosi se la nostra coscienza  nasconde le più inumane  tendenze. E’ forse così  disdicibile  il  cinema Horror?  Decenni di  storie demoniache ci hanno assuefatti’;   il mondo della celluloide  è stato sdoganato da  qualsiasi responsabilità  etica e culturale per la sua tendenza  all’ orrido forse solo per questioni  economiche di  business?. Credo che tutto quanto si maligno ma sopportabile debba considerarsi alla stregua di un veleno, l’ abituazione ci  consente di sopportarlo, differentemente da una sostanza che determini uno shock.  Le nostre nonne ci dicevano che la medicina deve essere amara, la modernità  ci propone   farmaci perfettamente inutili resi gradevoli al palato,  per esclusiva motivazione economica in un perfetto adattamento alla tossicità. Credo che in ambito culturale il meccanismo sia identico,  tutto  l’orrido che ci circonda entra a far parte della cultura,  la massa  è sottoposta a terapia di cronicizzazione sotto l’azione di continue piccole dosi di  orrore mediatico. Tacete ha il pregio e la sventura di non conoscere le dosi farmaceutiche, la sua  identità filosofica è  assoluta, irremovibile, per trovare sfogo si maschera, cambia livrea,  camaleonticamente prende i colori dell’ambiente che frequenta.  Puerilmente utilizza mezzi e immagini  senza  smussarne le  spigolaure, come se l’uomo Antonio  Ugolotti Serventi abbia rifiutato  la tenzone con un mondo di grandi adulti piccoli piccolissimi nani.  Egli non  apprezza  commisurarsi,  sebbene ne abbia  i mezzi, con l’ establishment culturale letterario corrente, preferisce il suo mondo colorito e sproporzionato. Mi perdonerà questa definizione, ma vedo in lui l’ essenza del bimbo  adulto  gigante nano, che non  intende  commisurarsi ad una società di bamboloni adulti nani. Rifugge l’ ambiente comune   e chiede collaborazione ai suoi personaggi  che gli vengono in aiuto. Noi possiamo restare  amabilmente esclusi dal suo mondo , ma con un piccolo sforzo di ridimensionamento verso il basso della nostra presunzione, possiamo entrarvi tranquillamente.   

Nelle ultime pagine, Le lucciole nella Lana delle Pecore diviene definitivamente un ‘antiromanzo,   le virgole si disperdono come  soldati reduci dopo una battaglia, i tempi  ed i luoghi si confondono come in un sogno incombente di un facchino dopo dodici ore di lavoro. L’autore senz’altro sente la bacchetta vibrare  all’impazzata  avvicinandosi al contenuto delle sue idee, sente sempre più  che Il mondo si capovolge sovvertendo le regole ferree che la fisica newtoniana ci aveva lasciato. L’antiromanziere Tacete che è anche antipoeta antibanale,  ci lascia una terribile condanna,  scritta con il fuoco della sua  allucinata visione: saremo costretti a perire, a morire soffocati, martoriati,   smembrati da innumerevoli diavoli occulti  venuti a popolare le nostre serate direttamente dall’etere. E se nessun ingegnere, o  accademico, o prete, o tramviere, sa cosa sia l’etere questo non importa,  noi staremo lì indefessi con il petto volto alle raffiche    che rispondono al nome del Sanbitter c’est plus facile,   Chi vespa mangia le mele, colore chiaro gusto pulito è Glen Grant ecc, ecc per citarne alcuni. Tacete non ci  fa sconti, conosce l’altra parte della luna, deve averla vista in sogno, oppure qualche diavolaccio screanzato deve avergliene parlato,  mentre l’opera volge al termine, e certamente pure il suo  furore creativo, prende piede  nella sua mente la certezza dell’abbandono del raziocinio come destino fondamentale dell’uomo Telesapiens  di ultima generazione. Badate bene, non c’è nulla di immorale nel trascrivere le proprie drammatiche  furie psicologiche, questo mondo è di per se una furia, un vortice di menzogna ed inganno, di trasformazione  del visibile in dottrina sincretica.  Tutto si può   elaborare in tempo reale in un linguaggio simbolico  post moderno riconvertito e ridimensionato, di certo invertito nelle sue funzioni. Come dice  la sua origine lessicale il simbolo nasce per  unire,  i grandi filosofi riunivano il sapere, oggi i grandi mediatici dividono ogni cosa in sottocategorie. L’opera di Tacete tenta invano l’opera di ristrutturazione del significato simbolico attraverso il paradosso, tuttavia  di questo ci rimane una traccia una direzione precisa.    Nella terapia psicoanalitica  riconosciuta, si attua l’esame dei sogni  per rappresentarne il loro aspetto in lingua simbolica, certamente il setting analitico ne sdogana l’irrazionalità sotto il meccanismo del motore inconscio. Ma è proprio  il serbatoio  comune  archetipico che ci conduce  per la via  della tradizione che va recuperata, i simboli dell’opera di Tacete sono fortissimi pur  distorti, ed è nella distorsione degli stessi che se ne trae quel senso di amaro. Sentiamo viva una sobbollente  sofferenza nella sua tragica satira, vediamo capovolti tutti i  crismi della ragione con la quale abbiamo condotto l’esistenza.  Una sottile terribile nostalgia delle regole naturali tanto distorte   dall’ anti poeta, tanto angoscianti nel desiderio di  essere recuperate . Sarebbe buona speranza riuscire a ridirezionare la nostra marcia attraverso il sistema di input, output  che da quanto detto ne deriva. Detestando gli inglesismi come spesso mi accade, direi che l’idea finale dell’opera di Antonio Ugolotti  Serventi Tacete, ci dovrebbe far sorridere dei nostri spettri personali, ma tale  catarsi dovrebbe accendere la scintilla di una  sacra riflessione sul quanto siamo degenerati nel mondo  attuale. Pertanto  se l’ attore Albertone Sordimuticiechi  aveva alle mani fori  di stigmate dove perdeva per terra le monete;  per compensazione dovremmo  comprendere come in un cantinaccio alcuni norcini stuprarono Villa il nano  con delle luganiche ed un’ altro prete diceva Mangiassero cicogne  e il maligno perciò si fosse impossessato,più in avanti negli anni  questi per un editto pontificio, che vietava di mangiare i trampolieri bianchi furono giustiziati dal boia.

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Racas commenta sul sito "ParmaRepubblica.it" il libro "Le lucciole nellalana delle pecore"


Che cosa ci fanno insieme Giacomo Leopardi, dei body builder, il filosofo Jean Jacques Rousseau, Ernest Hemingway e Villa il nano? La risposta, forse, la potrete trovare tra le pagine di “Le Lucciole nella lana delle pecore” (GuaraldiLab, euro 10), ultima fatica letteraria del parmigiano Antonio Tacete (in foto), “vin santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park”. Così si definisce in epigrafe l’autore.
Lo scrittore Guido Conti considera Tacete “un esempio di libertà narrativa assoluta. Non ha regole nei giochi spazio temporali, nelle metafore, negli incastri drammaturgici dove non è nemmeno importante seguire un filo logico del racconto, anche perché non c’è. L’invenzione nasce frase dopo frase. La scrittura segue il frizzante citrato del cervello sulfureo dell’autore. Tutto è portato oltre ogni limite con un umorismo tragico, un divertimento amaro”.
Una poetica che si ritrova tra le pagine dell’ultimo romanzo. Romanzo per così dire. Perché quelle di Tacete sono pennellate di scrittura, vorticose, inarrestabili. La sua penna sembra un pennello in mano a un pittore dell’Action Painting: frasi lanciate sulla carta.  Villa il nano (alter ego dell’autore?), il “protagonista”, nel suo vagare atemporale, caotico e senza meta, passerà da San Secondo a Parma, da Firenze a Roma, alla Svizzera, arrivando in taxi fino a Honolulu. Questa sua “odissea” lo condurrà a essere spettatore e attore, in uno stesso tempo, di vicende surreali, oniriche, autentici “pastiche” letterari. Verrebbe da pensare a un film di Federico Fellini.
Quella di Tacete è una narrazione che si fa beffe delle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. Le fa a pezzi, destrutturando perfino la lingua, priva, per lo più, di punteggiatura. Quasi come in “Birdman”, il flusso narrativo potrebbe proseguire all’infinito, ben oltre le centinaia di pagine in cui è costretto. Romanzo metafora delle immagini televisive che invadono le nostre vite? O forse del caos babelico che inonda i social network? Farsesca e tragicomica rappresentazione del mondo? Ai lettori l’ardua sentenza. (racas)


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Roberto Barbolini commenta sul sito "thelivingstone.it" il libro "Le lucciole nella lana delle pecore"
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Che dire di Antonio Tacete, «questa sorta di vin Santo all’aceto che i chierichetti paleocristiani di Parma versavano dalle ampolline nei calici di pape da luna-park »? Soprattutto: che dire di Tacete, che non abbia già detto lui, nascondendolo apertamente nella vanvera vorticosa d’una scrittura di ripugnante attrattiva? Il paragone immediato e blasfemo, giusto per non far torto alle sue non comuni aspirazioni, alle sue ardue traspirazioni narrative, è con un premio Nobel della letteratura: il cinese Mo Yan. Uno pseudonimo che significa «colui che non vuole parlare». Ora, immaginatevi che razza di buffo rendez-vous continuamente mancato sarebbe quello fra uno scrittore parmigiano che ha scelto come nickname l’imperativo «Tacete!» e il suo celebre collega, l’autore di Sorgo rosso, che dal canto suo non ha alcuna voglia di parlare. Ma potrebbe invece trattarsi d’ uno di quegli incontri fortuiti fra un ombrello e una macchina per cucire su un tavolo anatomico auspicati da un certo Lautréamont… E qui il vecchio Carl Gustav Jung andrebbe in brodo di giuggiole per via di una coincidenza straordinariamente significativa: l’autore dei Canti di Maldoror ha infatti avuto l’arduo privilegio di legare la sua morte alla nascita di Tacete. Come ci racconta col suo stile inconfondibile, costui è infatti nato proprio il 18 marzo del 1970, «un secolo esatto dalla morte dello scrittore Isidore Ducasse detto conte di Lautréamont, lui poeta benigno, l’altro poeta maleficissimo, un giorno prima della fiera di San Giuseppe, dove nonni gobbini portavano i nipoti pupattoli a vincere pesci rossi ». Questi nonni gobbini sono già gli antesignani del nano Villa e della corpulenta nonché crapulenta corte dei miracoli che si aggira spetezzante e sogghignante nelle pagine di Le lucciole nella lana delle pecore, carnevalesco sabba di parole che solo un coraggioso capitano di ventura come Mario Guaraldi poteva aver l’ardire di pubblicare. Come vedrete dalle paginette che TheLivingStone ha scelto, infatti, la prosa di Tacete non è per nulla accomodante. Può forse peccare di narcisismo, ma non di quella consolatoria ipocrisia che costella tanta narrativa italiana, soprattutto quando si finge dedita a scopi altamente sociali. D’accordo: Tacete è uno scrittore arrogante: solo un losco figuro può ordinarci così perentoriamente di tacere, arrogando unicamente a se stesso il diritto alla parola. Ma se vi azzardate a seguire le mille capriole verbali di questo stramboide, se vi lasciate catturare dal suo mondo teratofilo e blasfemo, da quell’immaginazione grottescamente copulante e dalla sua indisponente malalingua, capace di farvi prendere lucciole per lanterne e viceversa, avrete l’ambiguo e silenzioso privilegio di gustarvi una prosa irta, inconciliata e mai paga, che vi appagherà non poco. Tacete, dunque, e leggete.

Roberto Barbolini

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